Non è un problema di consapevolezza delle proprie esigenze o di focalizzazione sui passi da compiere per migliorare la gestione del proprio business. E neppure di scarsa percezione delle potenzialità del digitale. A frenare le piccole e medie imprese e i professionisti nell’adozione delle nuove tecnologie a supporto delle attività di ordine amministrativo e finanziario è, ancora una volta, la fortissima propensione a mantenere vecchie abitudini e a privilegiare soluzioni tradizionali, senza approfondire in modo adeguato le opportunità offerte dagli strumenti di finanza innovativa disponibili.
Questa paura del cambiamento, se tale si può definire questo approccio, emerge in modo evidente da una recente indagine qualitativa condotta dall’istituto di ricerca Rfr International per conto della fintech Tot, piattaforma di finance management attiva da marzo 2022 con oltre 1.200 aziende fino a 9 dipendenti in portafoglio, e finalizzata a comprendere le aspettative di Pmi e liberi professionisti in merito al loro rapporto con il digitale.
L’indagine fotografa, infatti, una chiara diversità di atteggiamenti nei confronti del conto aziendale, che vede da un lato i professionisti averne spesso uno solo e con le stesse caratteristiche di quello personale (stessa banca, tipologia e persona di riferimento) e dall’altro le microimprese che ne utilizzano più di uno, associato a specifiche funzioni e scelto in base a caratteristiche solitamente di natura economica (interessi migliori, costi ridotti, funzioni ad hoc e altro).
Ad accomunare i due mondi, per contro, c’è per l’appunto un approccio “old style”, riconducibile a operatori bancari tradizionali e ancorato a scelte operate anche molto tempo indietro, che non vengono messe in discussione fin quando non intervengono esigenze nuove e pressanti, come il bisogno di una surroga o l’esigenza di accendere un leasing, l’urgenza di anticipi/crediti o il lievitare incontrollato dei costi del conto corrente.
In assenza di stimoli esterni o impellenze legate a un cambiamento di ordine operativo (come per esempio lo spostamento delle domiciliazioni e la comunicazione a fornitori/clienti, la ricompilazione dell’elenco beneficiari o creditori) e a causa di una superficiale valutazione delle diverse proposte, ecco che professionisti e Pmi rimangono fedeli al canovaccio consolidato, aumentando il rischio di appesantire i processi e di non approfittare dei vantaggi in termini di efficienza e velocità garantiti dagli strumenti digitali.
Come si legge ancora nell’abstract dello studio, in effetti, se l’home banking è uno strumento esclusivo di operatività quotidiana e se la possibilità di operare in piena autonomia e sicurezza online senza perdere tempo recandosi in filiale raccoglie pareri più che positivi, i soggetti intervistati mostrano un atteggiamento quasi univoco di resistenza verso una proposta di piattaforma completamente digitale, senza touch point fisici sul territorio.
Da dove nasce questa diffidenza? Non vi sono motivazioni concrete e razionali, ma è prevalente il timore irrazionale di perdere figure di riferimento “umane”, a cui di fatto raramente si fa riferimento ma la cui sola esistenza dà sicurezza. Un sentiment contraddittorio, insomma, rafforzato anche dalla centralità attribuita al servizio di customer care, che nel caso sia gestito da persone reali, (e non da meri risponditori automatici o chatbot evoluti) rappresenta di per sè un valore per il cliente finale in termini di assistenza e consulenza.
Ciò che chiedono puiccole imprese e professionisti, in generale, è un rapporto di partnership con il proprio interlocutore finanziario e non di semplice fornitura, fermo restando che l’economicità del conto rimane un elemento centrale di valutazione di un servizio. Come ha evidenziato anche Bruno Reggiani, Coo e co-founder di Tot, “è però necessario un cambiamento culturale che i giovani hanno già fatto, rendendoli pronti a cogliere il valore aggiunto dei servizi digitali. E’ corretto essere attenti alla solidità della realtà a cui si affida il proprio business, ma è indubbio che sul mercato siano presenti attori digitali monitorati e vigilati che garantiscono le stesse tutele del sistema bancario tradizionale”.
Personalizzazione ed evoluzione dell’offerta, assistenza continua e rapidità di risoluzione dei problemi, procedure semplificate e veloci sono le voci più importanti nella casella “richieste”, con i soggetti più giovani e tecnologicamente più aggiornati che dimostrano una minore predisposizione all’inerzia (circa vecchie abitudini di finance management) e a un approccio contraddittorio.
La maturazione del fintech e delle piattaforme di finanza alternativa gioca ovviamente a favore di questa migrazione da tradizionale a digitale e uno studio recente di Qonto – altra piattaforma di business finance management, francese di origine ma da tempo radicata in Italia -, condotto in collaborazione con l’agenzia Cint, rileva in proposito come l’87% degli italiani (percentuale che raggiunge il 93% nella fascia tra i 18 e i 24 anni) utilizzi regolarmente almeno un’app per pagamenti, attività bancarie, prestiti o altre attività finanziarie nella propria vita personale o professionale.
Oltre il 76% dei soggetti intervistati, inoltre, dichiara di possedere almeno un conto online (personale o aziendale) mentre quando si parla di gestione del denaro in modalità digitale i servizi e i prodotti fintech sono considerati affidabili e sicuri dall’85% degli intervistati, e di questi il 46% ritiene che lo siano quanto o più di quelli tradizionali.
Considerando che il 68% degli italiani preferisce effettuare pagamenti tramite carte di credito e debito o pagamenti via app, contro solo il 32% di chi risponde di prediligere i contanti, perchè c’è ancora una diffusa diffidenza nell’adozione sistemica di questi strumenti per gestire la finanza in ambito professionale?
La risposta, per quanto sorprendente, sta nella scarsa conoscenza della materia: oltre la metà del campione oggetto di indagine conferma di aver sentito parlare di fintech ma non conosce l’argomento o lo conosce poco e un terzo non ne ha mai sentito parlare.
A far ben sperare in un’inversione di tendenza c’è comunque un dato. Chi più conosce l’argomento è generalmente chi fa impresa, con il 15% di professionisti o imprenditori intervistati a ribadire una conoscenza approfondita dell’argomento (a fronte però di un 22% che non ha mai sentito parlare prima).
Come osserva Mariano Spalletti, country director di Qonto in Italia, la sintesi di tutti questi indicatori conferma come “l’Italia sia, a dispetto di quanto si creda, un Paese in crescita per quanto riguarda l’utilizzo della tecnologia applicata alle finanze, ma c’è ancora bisogno di fare educazione sul tema per accompagnare le aziende a sfruttare appieno il pieno potenziale di un’innovazione che ormai è da considerare oggi più che mai necessaria e imprescindibile”.
di Gianni Rusconi
6 aprile 2023